08/02/15
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"Chi ha paura di sognare
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I templi tantrici di Khajuraho















Khajuraho è nota come la valle dei templi tantrici, presenti anche a Konarak, nell’Orissa, quest’ultima conosciuta per la sua “oltraggiosa mostra” di shivalinga (il fallo di Shiva). L’itinerario nei templi è metafora viva del viaggio interiore. Oppure inizia la ricerca interiore che si fa esperienza viva del viaggio nel corpo-tempio e nasce magari il desiderio di visitare i templi di Khajuraho o della non lontana Konarak, i templi dell’amore tantrico.

Il piccolo aereo decolla barcollando dopo orari sospesi e prolungato ritardo. Viene naturale chiedere quando è previsto l’arrivo, per sentirsi prontamente rispondere: When we will land, madam! (quando atterreremo, signora!) Anche volendo trascurare l’inconfondibile inglese cantilenato, non c’è dubbio: siamo in India! Tanto vale abbandonare la zavorra di una pianificata precisione svizzera e di qualsiasi efficientismo filo germanico e volare più leggeri.

Infatti, si atterra; e diventa ancor più difficile darlo per scontato quando gli occhi si poggiano sul portello in apertura, visibilmente arrugginito. Ben pochi altri fenomeni naturali credo, hanno la qualità corrosiva delle piogge monsoniche.

Khajuraho, un piccolo villaggio di terra e letame, polveroso e sguarnito come solo i villaggi indiani sanno esserlo, non giustificherebbe un aereoporto se non ci fossero i templi tantrici, i templi dell’amore. Seppure disseminati in una vasta aerea, i più noti e in buono stato sono circondati da una ringhiera stile anni 50, più o meno gli stessi che hanno visto inaugurarsi il progetto turistico, insieme al fiorire, lungo la strada principale, di alberghetti, ristoranti, negozi e qualche hotel superlux.

È difficile camminare quieti se non si è provvisti di tenace determinazione, e veloci a raccogliere il cappello da sole, se cade, pena la mancia. Soprattutto i bambini, invadenti e caparbi, ti seguono invitandoti a incontrare certi loro sguardi luminosi, gli occhi stellanti.

Nel volto delle donne più spesso si coglie l’ombra di una triste stanchezza. Lavorano le donne, senza sosta, anche al restauro dei templi. Seguendo con lo sguardo, l’andatura di una donna, con in bilico sulla testa una scodella di malta di cemento, gli occhi incontrano altri visi femminili, radiosi, quelli scolpiti sulla parete esterna del tempio.

Quanta ampia luminosità c’è su questi volti, c’è la stessa fermezza, la stessa fiera centratura della donna col cemento, manca in quest’ultima la luce del godimento. Il riverbero di tale radianza si moltiplica in mille sguardi scolpiti sulla parete, in innumerevoli corpi sinuosi, donne e uomini, dei e dee. Difficile dare materia e spessore diversa all’estasi manifestata da queste sculture nel semplice accudirsi, sciogliersi i capelli, togliersi una spina dal piede, specchiarsi, come del resto nell’affiancare l’Amato/Amata, reclinare il volto verso di Lui/Lei, unire i corpi nell’e-statico accoppiamento.

In ogni viso si replica il mistero lucente di una potente, morbida sensualità, di uno stato di grazia: mistero immoto, non annebbiato da emozioni, anche nell’amplesso. Difficile spiegare nell’incontro di questi corpi quel contatto delicato e fermo, quella pulsazione impalpabile priva di movimento voluto: è una melodia che nasce, un silenzio che si prepara, un ampio sorriso appena accennato sul volto degli amanti, una preghiera che s’innalza spontanea: Lodato il mio Signore… Benedetta fra le Donne. È lui, l’uomo, l’Amato, il Signore; è lei, la donna, l’ Amata, la Benedetta tra le Donne. Riecheggiano spontanei alcuni versi dagli Shivasutra del Vigyan Bhairav Tantra: “Quando sei baciata, carezzata, Principessa, penetra nel corpo dell’Amato la Vita Eterna”.

Balza evidente l’operazione che poi è stata fatta successivamente, quella di scacciare il divino all’esterno, per proiettarlo in qualche immagine perfetta da venerare, dimentichi che la sua dimora è il nostro stesso corpo: il corpo, così diviso, ha negato la sua divinità.

All’interno di alcuni templi, nell’apposito tabernacolo (garbha griha o “dimora dell’embrione”), si erge il dolmen, lo Shivalinga che poggia mestoso nella divina Yoni (la vulva). È questo il santuario vero e proprio ed è il Linga che determina l’asse verticale principale dell’architettura della torre (shikhara) del tempio. Sulle pareti esterne si consuma la celebrazione della coppia. Perfino il Dio Ganesh, che sempre abita solitario nel tempio, qui è scolpito accanto alla sua sposa, così Shiva e la sua compagna, Vishnu e la sua donna, Adinath e la sua femmina, nelle loro innumerevoli manifestazioni.

Questo anche a riprova dell’aperto sincretismo che animava la spiritualità e la cultura al momento della fioritura di Khajuraho. Gli elementi della coppia sono vicini nel corteggiamento, talvolta culminante nell’unione, oppure, salendo con lo sguardo lungo la parete, “apparentemente” separati nella postura meditativa. La costruzione del tempio mostra l’evidenza di un ordine preciso, meglio visibile nel tempio di Vishvanatha, dedicato a Shiva. Quest’ordine architettonico e decorativo allude a un viaggio dalla dimensione orizzontale a quella verticale, dall’esterno all’interno.

I templi si poggiano sopra massicci e alti basamenti, i cui scalini sono spesso disordinatamente restaurati con pietre cadute dalla facciata dove giacciono isolate sculture. La prima cintura esterna più vicina alla base rappresenta il mondo minerale, seguita da una seconda decorazione floreale che spesso circonda orizzontalmente le pareti esterne.

Nella terza fascia, salendo dal basamento, si raffigura la” festa” e il frastuono della molteplicità, in cui si snodano i vari aspetti della vita del tempo: la caccia e la battaglia, le botteghe, i mestieri, l’insegnamento, il piacere e l’erotismo… Amorali quest’ultimi, sono rappresentati in ogni loro manifestazione, pregni della vitale innocenza dell’animalità. Qui l’eros è l’espressione della divinità che proclama, nella Bhagavadgita(10.28): Io sono l’Eros che esiste nella generazione.

Poi la disposizione delle sculture comincia ad assumere maggiore rilevanza e verticalità, si distinguono i volti, gli occhi, i gesti che si fanno mudra; più di tutto spiccano i volti, estatici nella materialità della pietra, un tempo anche nel colore, che vogliono rapire a contemplazione. È il tripudio della polarità, la celebrazione del “maithuna”(l’accoppiamento) goduta nell’intimità eppur condivisa con naturalezza con ancelle e fanciulli. L’uomo e la donna si “scoprono”, si venerano, si guardano negli occhi, mentre le godibili posture erotiche della fascia orizzontale sottostante non richiedono l’incontro degli sguardi e nemmeno l’opposta polarità: giochi erotici con lo stesso sesso, con gli animali… Shiva è raffigurato anche in forma di grande toro, e Vishnu in forma di cinghiale.

L’animale ha la stessa sacralità dell’umano, del dio. Non manca nel verticalizzarsi e ingrandirsi delle figure la danza della morte, che assume il vivere a suo sposo. Salendo ancora lungo le pareti che vanno gradatamente ad affusolarsi, la dualità si risolve spesso in un unico corpo, nella scultura solitaria, quieta e meditativa. Infine compare la cima, l’architettura si fa spiralica ed elicoidale a manifestazione della pura energia e l’apice sembra voler decollare unendosi al vicino cielo. All’origine i templi, intorno al centinaio – oggi solo una ventina – erano smaltati, con prevalenza del color magenta.

Percorrendo con gli occhi appena svegli l’esterno dei templi, nella rosea solarità del mattino, in quel momento meno affollato in cui gli assetati giardini circostanti rivelano qualcosa dell’antico splendore, è più facile cogliere le linee “pure” delle sculture e vien da ridere al solo pensare che certe posture erotiche, come da kamasutra, possano essere mentalmente riprodotte: le forme, i corpi, i gesti, le posizioni amorose, la mano stessa dell’artista che li ha prodotti non si muovono, ma sono mossi, come in un danzante latian, un’antica tecnica in cui si rimane immoti finche il movimento non “ci raggiunge”, finché un vento invisibile, flette il nostro corpo o muove delicatamente una mano, le dita, la testa…altrimenti chiamato anche movimento rigeneratore.

Chi ha reso pregna di radianza amorosa questa pietra era prima mistico, poi architetto e scultore. A Gandhi non piacque questo erotismo che poco aveva a che fare con la classica idea di fecondità e riproduzione, infatti rarissime sono le sculture di donna con neonato tra le miriadi coinvolte nella voluttà del maithuna.

A questo proposito così riporta il francese Danielou, che dedicò 25 anni della sua vita sul “campo”, in India, occupandosi dell’architettura dei templi tantrici e partecipando alla loro riabilitazione: “La nozione di fecondità è completamente estranea al valore sacro che gli indù attribuiscono all’erotismo, alla sensualità e all’amore. L’aspetto di partecipare al divino attribuito all’atto sessuale, non si basa sulla sua utilità procreativa, ma sul suo carattere voluttuoso. E’ il piacere che si sprigiona dall’unione dei principi. E’ il godimento, riflesso di perfezione della condizione divina”.

E l’India, nel tentativo di nascondere e dimenticare l’uso consapevole dell’energia sessuale proprio dell’arte tantrica, è diventato il paese più prolifico e demograficamente a rischio.

All’inizio della scalinata d’accesso al tempio si fa richiesta di togliersi le scarpe. Abbandonate, quindi, le calzature e la moltitudine del riverbero del mondo “dipinto” sulle pareti esterne, il viaggio si apre all’interno attraverso la soglia del tempio che spinge nell’ombra silente, nell’improvvisa oscurità. È un pò come essere scaraventati dall’abbagliante passione, alla penombra della pace, dall’esperienza, all’essere. Alti e impegnativi sono gli scalini della soglia, come a scandire l’atto di un passaggio a piedi nudi che non vuole essere automatico, distratto.

L’itinerario si fa più intimo e meno loquace, le pareti interne sono man mano più sguarnite e il cammino si snoda circolare intorno al nucleo centrale, il santuario, che in tempi più tardivi ospita, in molti casi, la statua della divinità a cui è dedicato il tempio, oppure vi permane il Linga di Shiva, adorno di fiori, sempre in contatto con la sacra Yoni. Il percorso è segnato da coppie di sedili di pietra che invitano a sedersi e a osservare con quieto distacco la “danza dei principi” che ancora prende forma, nella sinuosità dei corpi di ninfee e di dei, sulle pareti esterne del tabernacolo. L’amplesso non compare all’interno del tempio e l’unione delle polarità sembra compenetrarsi e stilizzarsi, dentro il tempio di Vishvanatha, in una sorta di mandala di pietra in cui il vuoto creato da un quadrato ospita al suo interno la scultura di una grande goccia di pietra, “dolmen palpitante”.

Nel “mandapa”, il vestibolo sorretto da colonne che guarda il nucleo interno del tempio, si potrebbe anche danzare celebrando la manifesta esperienza che il corpo è il tempio, e ” dentro e fuori” si uniscono, in un’unica danza.

tratto da elsamasetti








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